martedì 16 gennaio 2018

ANNA UDDENBERG ~ Sante Par Aqua ~ Kraupa-Tuskany Zeidler, Berlin

Anna Uddenberg, Sante Par Aqua, Installation view, Kraupa-Tuskany Zeidler, Berlin, 2017.


04.11.2017–13.01.2018

A prima vista le sculture di Anna Uddenberg nella mostra  Sante Par Aqua ( SPA ),alla galleria
Kraupa-Tuskany Zeidler a Berlino sembrano una flotta di astronavi dalla superficie felpata pronte
a decollare. Ma anche ostiche poltrone. L’artista svedese ha presentato una serie di nuovi lavori
che ricordano un mondo distopico a mezza strada tra la serie TV Black Mirror e Westworld.
Nella prima stanza ci sono tre sculture della dimensione di tre grandi poltrone mentre, nella seconda stanza,
due pareti di vetro, in cui scorre una cascata artificiale,formano una gabbia al cui interno c’è una grande
scultura come un una presenza aliena, quasi totemica.
Le forme scalari e asimmetriche insistono sulla dinamicitá dell’oggetto, mentre la stoffa in cui sono realizzati
restituisce sensualità alla freddezza della macchina. Infatti, il distacco dalla realtà, l'alienazione, è
aumentato dal fatto che le sculture si elevano su una base luminosa che sembra sollevare la scultura in volo.

 Anna Uddenberg, Sante Par Aqua, Installation view, Kraupa-Tuskany Zeidler, Berlin, 2017.

Le opere sono realizzate con una combinazione di materiali diversi: polistirolo espanso, resina acrilica,
fibra di vetro, schiuma di poliuretano, HDF, elementi interni di automobili, pelle sintetica, pelliccia
sintetica, pavimento in vinile, zaini da escursionismo, strisce di schiuma di vinile, insieme a supporti
diversi come la poltrona del parrucchiere.
Anna Uddenberg che ha conosciuto la fama grazie alle sue sculture antropomorfe metà corpo
umano (*femminile) e metà oggetto (*commodity), come valigie e carrozzini, estende la sua ricerca in
una direzione che riguarda l’architettura e lo spazio come corpo sociale.
La SPA è un luogo neutro, dedicato alla cura del corpo, ma anche uno spazio sociale. Una culla di
benessere dove il corpo è diventato esso stesso commodity, oggetto di lusso, lontano dal benessere
reale del diritto alla salute.  
L’ostentazione del lusso diventa la negazione della realtà del corpo, della sua pesantezza e dei suoi
veri bisogni.
A differenza dei lavori precedenti, queste macchine, create dalla Uddenberg, hanno perso la parte
umana, non perche la hanno introiettata, ma perchè ne sono completamente mancanti. Anzi sembra quasi
che chiedano al visitatore di essere completate, di essere montate. Queste macchine si muovono
virtualmente in una dimensione che vede l'immaginazione come un mare percorribile.
Invece, in linea di continuitá i lavori precedenti, le sculture di Anna Uddenberg riguardano la superficie,
non come concetto generale,ma come soggetto specifico: le superfici delle sculture così accattivanti al
primo sguardo, in realtá nascondono un paziente lavoro di cucitura a mano. Un po’ come il nostro
concetto ‘surreale’ di benessere nasconde una serie di bisogni reali inappagabili perchè
completamente intrappolati nel superfluo.

Anna Uddenberg, "Pockets Obese", mixed mediaCourtesy Kraupa-Tuskany Zeidler, Berlin, 2017.

venerdì 29 dicembre 2017

Daniele Milvio BRACHE @ Supportico Lopez, Berlin

Daniele Milvio, Brache, Installation view at Supportico Lopez, Berlin, 2017


La mostra Brache di Daniele Milvio da Supportico Lopez, a Berlino ( fino al 27 Gennaio 2018),
ha qualcosa dell’illusione di un mago di strada. E infondo il lavoro dell’artista non è mai
stato lontano dall’uso di un codice che appartiene alla letteratura. Schifanoia, Cacafoco, Leggi
e Credi sono alcun i dei titoli di sue mostre precedenti. Ma quello che accade a Supportico Lopez
è leggermente diverso.
Brache fa venire in mente una serie di modi di dire. Le ‘brache’ in italiano sono i pantaloni: la
parola è associata al modo di dire ‘calare le brache’, a ‘brache calate’, che richiama il sentirsi
nudi, esposti, disarmati. Ma in tedesco Brache vuol dire Incolto, non-coltivato, selvaggio.
La mostra dimostra un momento critico e coraggioso rispetto percorso artistico dell’artista,
che investe anche un lato privato della sua vita.
L’artista insiste sull’idea come chiara e confusa e contemporaneamente distinta e oscura, secondo
la teoria Leibniziana ripresa da Gilles Deleuze in Differenza e Ripetizione.
Le opere sono esposti nella semi oscurità. Lungo la parete, di fronte all’ingresso, sono mostrate
una serie di tabelloni su cui sono affissi dei fogli. Questi collages sono fatti con documenti di
varia provenienza, carte intestate di avvocati, compagnie di assicurazione, esposti di carabinieri etc.
Tutto è ulteriormente scritto, segnato, dalla grafia inintelligibile di Daniele Milvio.
In fondo alla stanza, la cosa che forse mi è piaciuta di più, due lampioni in bronzo realizzati con
un mappamondo attaccata su steli lunghissimi e decorati, attaccati su una base fatta da una
campana. Vederli é stato  come riconoscere un oggetto in sogno.
Sulla parete che si apre ad arco verso la stanza più piccola, sono installati una serie di
disegni, maschere infernali colorate, che portano i nomi di vari personaggi: un
batticazziere, l’incensurato, l’iscaiuolo, Er Più, È un ragazzo sensibbile, Faina etc.
Nella stanza più piccola un altro mappamondo e un ultimo pannello con alcuni fogli scritti ed
un disegno di tre carabinieri. Questi carabinieri con il tipico cappello a forma di barca
potrebbero essere gli stessi che hanno catturato Pinocchio, il burattino di Collodi che nel sogno
di diventare ‘un bambino vero’, dal cuore selvaggio, sovverte tutte le regole.
Proprio come la serie di disegni e grafismi, che richiamano l'associazionismo libero, la
scrittura automatica surrealista e la poesia visiva, raccolti da quando Milvio era un bambino fino
ad oggi e inscritti su fogli bianchi o già ‘segnati’ da esperienze reali di vita dell’artista.
Daniele Milvio costruisce nella mostra una fede inestricabile tra vita e arte che può assimilabile ad
un opera di traduzione costante tra immagini e parole reali e sogni.
Il gioco di parole, che da il titolo alla mostra ricorda il rapporto continuo tra la parola e
l’immagine. Proprio come nella magia. La traccia da cui partire è il comunicato stampa della
mostra scritto in inglese e tedesco che é una lettera di Daniele Milvio a Stefania Palumbo e
Gigiotto Del Vecchio. fondatori e curatori di Supportico Lopez.
Nella lettera Milvio scrive che i suoi disegni/grafismi sono illeggibili e questo non ha nulla a
che vedere con il fatto che la mostra ha luogo in Germania.
Invece, secondo me, è proprio questo il punto. La sua scrittura, incomprensibile, se non alla
sua stretta cerchia, i suoi disegni di maschere infernali, esorcizzano proprio il sentirsi
‘fuori posto’ della deterritorializzazione.
Sarebbe inutile pensare di potere decifrare questi segni. Non c’è nessuna volontá di rivelare e
di analizzare. Daniele Milvio non regredisce alla ricerca di una misteriosa identità e
tantomeno ricerca l’oggetto perduto. Sarebbe inutile ed ha ragione.
Però guarda alla radice di un percorso di vita, che lo ha condotto fino a questo punto. Infondo,
anche questa volta, Daniele Milvio gioca con l’idea della fine, o meglio del tempo come punto
di inizio e di fine.

Il torrente di parole intraducibili cosí ricontestualizzate nella mostra non vogliono chiudere
il visitatore in un orizzonte definito, metterlo all’angolo in un gioco di specchi e riflessioni, ma
al contrario, aprire molteplici possibilità con segni,maschere, parole incomprensibili.

Daniele Milvio, Brache, Installation view at Supportico Lopez, Berlin, 2017


Daniele Milvio, Brache, Installation view at Supportico Lopez, Berlin, 2017


Daniele Milvio, Brache, Installation view at Supportico Lopez, Berlin, 2017


Daniele Milvio, Brache, Installation view at Supportico Lopez, Berlin, 2017


Daniele Milvio, Brache, Installation view at Supportico Lopez, Berlin, 2017

The opening of Daniele Milvio, Brache, Supportico Lopez, Berlin, 2017 

domenica 24 dicembre 2017

sabato 23 dicembre 2017

ANN VERONICA JANSSENS Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht @ ESTHER SCHIPPER, Berlin / November 4 – December 16, 2017


Ann Veronica Janssens, Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht, Installation view, Courtesy Esther Schipper, Berlin

L’installazione site specific Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht ( Io sto parlando con te come i bambini parlano di notte) di Ann Veronica Janssens, che ho visitato a Novembre nella galleria Esther Schipper a Berlino, mi ha dato la possibilità di sentirmi  come una entitá indefinita, pura percezione. Era un invito a lasciarsi andare, a dissolversi nella luce.


L’opera si presenta come una stanza chiusa da una parete trasparente di plexiglass attraverso cui si intravede la luce colorata cambiare dal verde al rosa al giallo. Sulla parete trasparente una porta permette di accedere all’interno.
Fin dal primo istante  in cui si apre la porta una cappa di nebbia sottile leggermente colorata ottunde ogni possibilità percettiva. La prima impressione di ostruzione nel movimento è accentuata dal l’impossibilità di vedere.
La nebbia è un muro che malgrado l’ eterea consistenza, è pronto ad ingoiare e ad assorbire il visitatore avvolgendolo completamente. La sensazione di stordimento è accentuata dalla perdita delle coordinate spaziali e temporali. Tutto questo può essere sia estremamente piacevole ma anche terribile.

Una volta entrata nella stanza avvolta dalla nebbia mi ha colto un sentimento violento di angoscia. Anche se razionalmente sapevo che non mi sarebbe accaduto nulla; che non mi  sarei potuta perdere in quella stanza; che quello era solo vapore e sapone: io ho avuto paura.
Mi ha ricordato la prima volta che mi sono trovata in una tempesta di neve alle Svalbard.
Quando le tempeste sono molto forti l’aria diventa densa e grigia fino al punto da non potere vedere né  riconoscere quello che si ha davanti. In quel momento ho havuto la terribile sensazione di essere vulnerabile e sola.
Quando non si vede ciò che si ha di fronte l’unica cosa da fare e stare fermi e aspettare che passi.
Dentro l’installazione Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht ho provato ad abituarmi a questa nuova condizione.
Ho provato a rilassarmi e a sentire la tranquillità di quei colori materializzarsi,. Ho respirato lentamente e profondamente. Ma nulla. Al contrario ho sentito una morsa stringersi nel mio stomaco e la sensazione che quella nebbia mi stesse soffocando.
C’era un solo pensiero nella mia mente: Elda,cerca una via d’uscita



Ann Veronica Janssens, Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht, Installation view, Courtesy Esther Schipper, Berlin

Ann Veronica Janssens (1956, Folkestone, Gran Bretagna- vive e lavora a Brussels, Belgio)  lavora precisamente con la luce. Il suo lavoro è una sperimentazione continua, interminabile.
La sua ricerca è rivolta, attraverso l’uso di diversi media, alla nostra percezione che non è puramente un atto mentale, ma è sensuale, attraversa il nostro corpo che assorbe dall’esterno come una spugna. Nella mostra Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht la fisicitá della installazione della Janssens é una sfida a oltrepassare i limiti dei parametri concettuali, visivi e sensoriali di percezione della realtà.
In una intervista la Janssens dice di essere interessata in situazioni di abbagliamento.
Nel suo lavoro il corpo stesso è immerso nella luce e allo stesso tempo è in grado di ri-produrre questa luce ‘mentalmente’. La luce infatti viene catturata dal nostro sguardo e persiste nella nostra mente. Per esempio, se guardiamo una fonte luminosa per un certo tempo e poi chiudiamo gli occhi, continuiamo a vedere questa luce pulsare di diversi colori.
Partendo da questi studi legati alle possibilitá visive e alle capacitá percettive, la ricerca di Ann Veronica Janssens insiste sulla immagine mentale e sull’effetto della luce su di noi. Le sue installazioni comportano l’uso di luce naturale, come nell’esperimento della ritenzione della luce con la vista, e anche l’utilizzo di luce artificiale.
Le proiezioni spesso creano le condizioni possibili della vista stessa: una sorta di esperimento ottico. Il proiettore è il punto di origine o punto di vista, la luce proiettata è l’oggetto. L’osservatore si trova ad essere in questa situazione l’elemento estraneo ed estraniante allo stesso tempo.
Le opere della Janssens mettono in discussione il modo in cui le nostre capacità sensoriali colgono la realtà e modificano le nostre immagini mentali, i pensieri e i nostri sentimenti e le emozioni relativi ad essa.

A questo punto mi chiedo esistono le emozioni senza di noi? È possibile che il mondo, fuori dalla nostra griglia percettiva, sia fatto solo di emozioni forti e colorate che aleggiano come una nebbia sottile? È possibile lasciarsi andare a queste emozioni fuori da questa griglia percettiva? Possiamo esistere anche senza di essa?

Per dare materialitá alla luce e ai colori Ann Veronica Janssens utilizza come elemento la nebbia e il vapore.
Questo elemento restituisce una certa voluminostá alle forme, ma è inafferrabile, come un fantasma, un simulacro. Camminando nella nebbia colorata anche l’osservatore diventa un’ombra.
In Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht  e nelle installazioni con le stanze e la nebbia colorata, la Janssens insiste sulla categoria di spazio e su quanto possiamo spingere i limiti della nostra percezione.

E ancora mi chiedo, quanto tempo impieghiamo a perderci nella nebbia? quanto tempo impiegano i limiti della stanza che ci circonda, i nostri confini mentali, a dissolversi?


Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht  sono parole del poeta Rainer Maria Rilke scritte in una lettera a Lou Andreas- Salomè.

La nebbia questo luogo senza spazio, dove ogni confine indietreggia, che ti confonde e fa perdere l'orientamento, il senso dello spazio e del tempo, può essere assimilato in un certo senso all’amore o ancora meglio, come per Rilke, alla scoperta dell’altro.

In questo perenne errare Rilke trovó il suo punto di approdo, la sicurezza assoluta in Lou. Lei era sempre. 



Ann Veronica Janssens, Ich rede zu Dir wie Kinder reden in der Nacht, Installation view, Courtesy Esther Schipper, Berlin

sabato 16 dicembre 2017

Jaguars and Electric Eels @ JULIA STOSCHEK COLLECTION, BERLIN



STURTEVANT, Finite/Infinite (2010) Courtesy of the Estate of STURTEVANT and Julia Stoschek Collection, Dusseldorf


Fin dai miei primi giorni ho sentito l'impulso di viaggiare in terre lontane raramente visitate 
dagli europei. Questo impulso caratterizza un momento in cui la nostra vita sembra aprirsi 
davanti a noi come un orizzonte senza limiti in cui nulla ci attrae più di intensi brividi mentali 
e immagini di pericolo positivo. - così Alexander von Humboldt descrive l’inizio del suo 
viaggio, nella introduzione all'ultima parte del suo libro Relation historique du voyage aux 
régions équinoxiales du nouveau continent - qualunque cosa sia lontana e suggestiva eccita la 
nostra immaginazione; tali piaceri ci tentano molto più di ogni cosa che possiamo sperimentare
 quotidianamente nello stretto cerchio della vita sedentaria.
Il piacere e l’eccitazione del viaggio sono il vero motivo della spedizione di Alexander von
Humboldt scienziato ed esploratore tedesco, vissuto tra il 700 e l’800,  più che la pallida volontá
di conoscere. - che in un certo senso, peró, giustifica anche questo piacere.
In realtá cosa rende tanto attraente l’impresa di Alexander von Humboldt per chi vive nel II 
millennio, è quello di essersi spinto oltre un certo limite, - letteralmente nelle zone torride - di 
avere rotto un codice.
Per questo motivo la sua impresa ha qualcosa in comune col fare artistico e con la meraviglia 
che l’arte porta in sé.
La mostra Jaguars and electric eels presenta 39 lavori di 30 artisti della collezione 
JULIA STOSCHEK COLLECTION a Berlino: Doug Aitken, Kader Attia, Heike Baranowsky, 
Trisha Donnelly, Juan Downey, Encyclopedia Pictura /Björk, Cyprien Gaillard, Ryan Gander, 
Manuel Graf, Cao Guimarães, Nancy Holt & Robert Smithson, Martin Honert, Donna Huanca, 
Isaac Julien, Simon Martin, Ana Mendieta, Nandipha Mntambo, Paul Pfeiffer, James Richards 
& Leslie Thornton, Ben Rivers, Natascha Sadr Haghighian, STURTEVANT, Bill Viola, Guan Xiao, 
Anicka Yi, Aaron Young.
Il video che apre la mostra è Finite/Infinite (2010) di STURTEVANT dove su una lunga parete è 
proiettato un video a loop in cui un cane nero corre su un prato. Il cane esce e rientra dalla 
scena come se corresse in circolo.
The Flavor Genome ( 2016 ) di Anicka Yi é anch'esso uno tra i primi lavori esposti. Il film, 
in 3 D e con un sistema audio surround 5.1, sfida le capacità percettive fino ai suoi limiti. 
Una serie di immagini provenienti da scenari naturali si mescolano con immagini 
microscopiche. La voce di uno scienziato racconta la storia dell’evoluzione che ha portato 
fino alla possibilità di manipolare il genoma umano tanto da essere incluso all’interno delle 
piante.
L’essere artificiale, mimetico, è una parte integrante della natura come nel video di Kader Attia
 Mimesis as resistance (2013), dove un particolare esemplare di uccello la Menura 
movellaehollandie, durante il corteggiamento, non solo canta il suo repertorio, ma imita 
anche tutti gli altri suoni e canti che ha intorno.
In Untitled (2005) di Trisha Donnelly ha creare la alterazione è l’obiettivo della camera che 
ripetutamente mette a fuoco e sfoca l’immagine che sta riprendendo: un giaguaro impagliato. 
L’animale morto ritorna in vita tramite il movimento della macchina, la vita diventa così un 
elemento puramente artificiale.
L’esposizione insiste sul fatto che non si può distinguere tra ció che é naturale e ció che é 
artificiale, ma le due cose si completano a vicenda e  sono egualitarie, come ha scritto Monika 
Kerkmann, nella  Introduzione, al piccolo e ben fatto catalogo che distribuivano all’ingresso.
Questo mi ha fatto ricordare qualcosa, che probabilmente von Humboldt conosceva. Nella  
Critica del giudizio Kant  scrive:
Di fronte a un prodotto dell’arte bella bisogna diventar consapevoli che è arte e non natura, 
ma la finalità della sua forma deve tuttavia sembrare così libera da ogni costrizione di regole 
arbitrarie come se fosse un prodotto della mera natura. […] Dunque, la finalità nel prodotto 
dell’arte bella, benché sia intenzionale, deve sembrare non intenzionale; vale a dire, l’arte 
bella deve poter essere guardata come natura, benché si sia consapevoli del fatto che è arte.
Nel video The laughing alligator (1979) di un pioniere della video arte Juan Downey, è ripresa
una popolazione autoctona, gli Yanomami della foresta amazzonica, nel sud del Venezuela. 
Nel video gli indigeni esprimono il complesso sistema di miti e credenze che costruiscono la 
loro cultura.
In questo senso viene da domandarsi se l’uomo derivi dalla natura, viva in continuità con essa e 
possa essere in continuità con essa oppure questo legame è stato interrotto per sempre. E se il 
repporto tra uomo e natura fosse stato frainteso da sempre?
 Cyprien Gaillard, Koe ( 2015), Courtesy of the artist and Julia Stoschek Collection, Dusseldorf

In Koe ( 2015) Cyprien Gaillard questo rapporto diventa una riterritorializzazione perturbante: 
uno stormo di uccelli esotici nel centro di Düsseldorf dove la specie si è inimmaginabilmente adattata.
La simulazione della realtà è invece ciò su cui insiste Natasha Sadr Haghighian in Artificial life 
(1995). Sullo schermo si vede una immagine che sembra ingrandita al microscopio ma che 
invece riproduce la polvere in un angolo della stanza, ripresa da una telecamera.
Ma il progresso tecnologico può anche essere un’illusione come nella installazione video a tre 
canali True North (2004) di Isaac Julien. Il video mostra la prima spedizione verso il Polo Nord 
nel 1909 guidata da Robert Peary e Matthew Henson. Agli inizi del 900, la missione fu vista 
come il trionfo del progresso. In realtà escludeva dal podio dei riconoscimenti tutti i membri 
della spedizione in favore di Peary. Il resoconto poetico insieme alla musica di Paul Schütze 
creano una atmosfera che si interroga sul sublime dinamico come categoria estetica. 


Isaac Julien, True North, (2004), Courtesy of the artist and St Paul Street Gallery, Auckland

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1 - Immanuel Kant, Critica della capacità di giudizio (1790), bur, Milano
2004, p. 425.